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Cascina Regaina. Un certo modello di allevamento da latte è ancora sostenibile?

“Una certa idea di allevamento da latte, e le modalità pratiche per la sua attuazione, è arrivata al capolinea. Non è più sostenibile, prima di tutto, dalla prospettiva economico-finanziaria. La corsa alla crescita, dei numeri, dei capi, delle produzioni, durata qualche decennio, si scontra ora con grossi ostacoli e senza correzioni questo modello può diventare critico per un’importante percentuale di stalle”. A parlare così, con realismo estremo, ma con spiegazioni interessanti a sostegno delle sue tesi, è Carlo Mangiagalli, veterinario e allevatore di vacche da latte a Mediglia, alle porte di Milano.


Cascina Regaina


È una storia, quella di questa azienda con circa 350 capi complessivi alle porte di Milano, che va avanti da una quarantina d’anni. Iniziata da Giandomenico Mangiagalli, instancabile e attivo fino alla sua recente scomparsa a quasi novant’anni, e poi continuata dai due figli Carlo, veterinario, e Filippo, laureato in Economia e commercio, infine con il figlio di Carlo Mangiagalli, Giacomo, che porta avanti la terza generazione.

 

Il rileggere la storia di tante aziende da latte di queste aree insegna molto, ha chi – come Carlo Mangiagalli, che ci accompagnerà nella chiacchierata – guarda i tempi presenti e ricorda le radici con cui essi affondano nel passato. E si evidenzia un primo punto di crisi.

 

“Qui – racconta – lo sviluppo delle stalle da latte è andato di pari passo con la crescente – ormai quasi esclusiva – dipendenza dalla consegna del latte all’industria, riducendosi ai minimi termini l’aggregazione tra le aziende e la loro capacità di svilupparsi e crescere come soggetti attivi nella trasformazione e nella vendita.

 

Vantaggi da questo legame strettissimo con l’industria ce ne sono stati inizialmente, ma strategicamente la cosa dimostra oggi che aveva il fiato corto. Senza la possibilità di gestire, lavorare, vendere in proprio quantità significative del latte che si produce, l’alternativa è dover rincorrere il modello del sempre più grande e delle produzioni sempre maggiori, perché l’unica via di reddito è consegnare sempre più latte.

 

Questo modello ha i suoi lati positivi, garantendo entrate costanti e un flusso di cassa regolare. Ma, via via che l’industria di consegna è diventata di fatto un monopolio o quasi, la marginalità per le singole aziende conferenti è diventata sempre più bassa. Di fatto, costringendo a un’ulteriore accelerazione del modello alla massima spinta produttiva per fare ancora più latte.

 

I costi per questo modello sono però sempre più alti e, a un certo punto della corsa, si fanno insostenibili”.

La grande corsa

Ma questa corsa nei decenni passati, secondo Carlo Mangiagalli, ha avuto anche una componente importante nella mentalità dell’allevatore. Spiega: “Racconto un aneddoto a mio avviso illuminante di una certa mentalità che può portare a grossi problemi economico-finanziari alla stalla.

 

Nei primi anni del 2000 ho provato ad essere trentaseiesimo o forse trentasettesimo nella graduatoria della provincia di Milano. Ero giovane e molto fiero di questo piazzamento e l'istinto era quello di continuare sempre di più questa scalata nella classifica. La parola d’ordine era spingere, spingere, sempre di più la produzione. Mi domando, però: ha un senso economico tutto questo? Spingere la vacca verso sempre maggiori produzioni? 100 quintali, 110 quintali, 120 quintali e poi ancora…

 

Per dirla con una battuta: il latte ti viene pagato di più perché sei il primo in classifica? No, il prezzo del latte è sempre uguale, ma i costi che si devono sostenere per alimentare questa corsa sono sempre più grandi e legano l’azienda in maniera crescente al mercato esterno”.

 

“Ma – continua Carlo Mangiagalli –  c’è una soglia oltre la quale non si può andare o tutta l’impalcatura dell’azienda vacilla e rischia di crollare: in un'azienda da latte la spesa per mangimi, integratori, nuclei non può essere superiore al 50%, altrimenti viene minata la sostenibilità economica di quella azienda.

 

Perché poi a queste spese per l'alimentazione si aggiungono tutte le altre spese dell'allevamento, le spese per il personale, le spese per le manutenzioni, per gli ammortamenti e così via. Sono tutte spese fisse che non cambiano, rappresentano uno zoccolo duro che non puoi toccare”.

Il rischio dei costi crescenti

“Se il tuo carico di animali aumenta sempre di più rispetto alla campagna e alla possibilità di autoproduzione foraggera, ci sarà sempre più bisogno di ricorrere ad acquisti esterni. Questi li fai a prezzi di mercato e diventano un vincolo fisso per la stalla. Ma se ci sono delle oscillazioni di mercato così forti come quelle che abbiamo visto negli ultimi tempi, è veramente a rischio la tenuta economico-finanziaria della stalla.

 

Perché ti troverai di fronte a dei picchi di costo a cui non puoi fare fronte e a cui non puoi nemmeno rinunciare, perché serve tutta quella roba per far mangiare le vacche. Vale il discorso, ad esempio, per certi aumenti improvvisi di dimensioni della stalla che creano disequilibri e fragilità, delle quali non sempre si tiene adeguato conto prima di iniziare.

 

Vedo tante aziende che stanno passando alle 1.000 vacche con indebitamenti spaventosi e la cosa mi spaventa. Se succede qualche cambio improvviso e i costi diventano insostenibili? Lo dico con brutalità: per l'azienda che ha perseguito quel modello l’alternativa è tra la chiusura o la soccida.”

Ritornare all’aggregazione e alla lavorazione del latte

Continuiamo con l’analisi di Carlo Mangiagalli: “Io credo che il futuro per chi produce latte, e intendo non le grandissime aziende per le quali non resta che cavalcare il modello della massima intensivizzazione, con il rischio di sembrare imprenditori, ma essere in realtà dei ‘mezzadri delle banche’ che hanno in mano l’azienda, sia quello che chiamo, per la Lombardia, il modello mantovano.

 

Lavorarsi la maggior parte del latte prodotto e, di conseguenza, aggregarsi in numeri significativi di produttori e tenere solo come marginale la vendita di una parte del latte. Avendo un controllo della lavorazione ti trovi in un contesto completamente diverso e più solido, economicamente e finanziariamente. Hai il valore del caseificio, hai il valore delle scorte, trattieni il valore della qualità che produci.

 

Invece, con il modello industriale, chiamiamolo così, tu non hai alcun valore che ti rimane in stalla: hai sempre questa necessità di correre, di ingrandire, di aumentare la produzione, di aumentare il numero degli animali, di spingere sempre di più. Ti indebiti sempre di più, ma della filiera controlli sempre meno, anzi non controlli niente. Questo modello non ci rende tanto diversi da quei produttori del Sud America costretti a produrre per le grandi multinazionali”.

 

“La nostra cooperativa – conclude Carlo Mangiagalli – lavora il 35% del proprio latte; è già qualcosa per recuperare redditività, ma è ancora una parte insufficiente, perché la grande parte delle entrate deriva dalla vendita diretta del latte. E poi c'è bisogno di uniformità anche all'interno delle nostre cooperative, per tipologia di stalla, qualità prodotta, modelli di sviluppo adottati. Non basta aggregarsi, servono aggregazioni omogenee, con stalle che abbiano la stessa visione e seguano uno stesso modello di sviluppo”.

Nuovo modello di animale

Al di là dell’aggregazione tra aziende e del recupero della lavorazione diretta del proprio latte, cosa fare in stalla? Carlo Mangiagalli già da tempo ha messo in atto contromisure per abbandonare il modello da corsa estremo. Spiega: “Serve un'organizzazione più bilanciata. Un rallentamento che porti a un equilibrio tra terra, animali, costi e lavoro.

 

Cascina Regaina bovine

 

Serve maggiore attenzione al benessere animale, al basso consumo di farmaci. Si deve lavorare sulla leva dei costi più che su quella della spinta produttiva: l’obiettivo deve essere una produzione soddisfacente al minimo costo. E si deve assolutamente abbassare la dipendenza della stalla da costi esterni”.

 

“Se prima io acquistavo tutto fuori, escluso il trinciato e buona parte del fieno, ora sono arrivato all’80% di quello che mi serve per l'alimentazione prodotto direttamente. Come? Ho diminuito il bestiame e ho aumentato la terra”.

 

Una mossa importante in questo percorso è stata quella di lavorare sugli animali presenti, per avere in stalla soggetti più consoni al nuovo modello di sviluppo.
Si è cominciato a fare incroci dal 2012, un'esperienza portata avanti da allora in maniera costante.
“Due le motivazioni che hanno portato alla scelta dell'incrocio – racconta Carlo Mangiagalli – una tecnica e una economica. Quella tecnica è legata al fatto che in stalla avevo animali sempre più deboli.

 

A fronte di questa situazione, una possibilità è la continua aggiunta di prodotti: soluzioni tecnologiche, nutrizionali, farmacologiche per andare a ovviare questa debolezza. Alcune cose funzionano molto bene, altre funzionano un po’ meno, ma il dato di fatto è che rappresentano costi che si sommano ad altri costi e a fine anno il numero delle fatture da pagare aumenta sempre di più. Il problema non è tecnico. Le soluzioni tecnologiche sicuramente ci sono. Il problema è economico, di sostenibilità di questi costi”.

 

Ma torniamo agli incroci.
“Prima di abbandonare la Frisona negli anni 2000 usavo tori con i migliori indici. Ma non vedevo miglioramenti apprezzabili. Cioè, il miglioramento è talmente lento che ci vorrebbero cinquant'anni per arrivare a risultati apprezzabili.
Da qui la scelta di rimpiazzare la Frisona con un animale più bilanciato, capace di cavarsela in tutte le situazioni, senza picchi estremi, ma solido, robusto, affidabile. Per questo obiettivo ho puntato molto sulla Fleckvieh come razza da incrocio e anche in purezza.

 

Ho notato che l'incrocio fatto con la Pezzata Rossa tedesca ha subito colmato quel gap di muscolatura che vedevo come difetto della mia mandria di frisone molto dairy. Da angoloso ho portato l'animale immediatamente a una struttura più robusta, compatta.
Il mio obiettivo è un animale armonioso, bilanciato, che produca 90 quintali di media, che a 90 giorni sia in calore, che con 1,5-1,7 interventi rimane gravido, che non va mai in apnea, nemmeno con il gran caldo, e tutto l'anno fa la sua dignitosa figura. Addirittura passa nel dimenticatoio, perché durante l'anno ti scordi persino che esiste, dato che non crea problemi. E direi che ci sto arrivando”.

 

Parliamo della parte sanitaria. “Qui devo dire che qualche dogma è caduto. Pensavo bastasse fare un incrocio e poi dimenticarsi di tutto, smettere di vaccinare e quant'altro. E invece no. Quindi, primo consiglio: mantenere i piani vaccinali.”

 

Molto positivo il dato delle dismetabolie. La chetosi per queste razze, complice anche un tipo di alimentazione non eccessivamente spinta, non è un problema di cui occuparsene. Le dislocazioni sono diminuite, anche qui probabilmente conta molto il fattore alimentare, oltre che la componente genetica.

 

Problematiche al parto anch'esse nettamente migliorate. E sulle mastiti? “Anche qui la situazione è migliorata e ritengo che mediamente questa razza permetta 100.000 di cellule in meno. Però, attenzione alle modalità di mungitura e anche alla conformazione delle mammelle per fare scelte di fecondazione con tori adatti: queste razze tendono ad avere il legamento centrale e l'attacco anteriore un po’ più deboli rispetto ad altre razze, con il rischio di avere una mammella po’ cadente”.

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