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Editoriale

La partita doppia delle emissioni, ovvero l’utilità di un secondo bilancio aziendale

Figura editoriale zero carbon

Se l’incertezza è l’unica certezza in tempi come questi, è anche vero che per quel che riguarda l’allevamento, da latte in particolare, dei punti fermi sempre più chiari ci sono e costituiscono dei binari obbligati su cui il procedere è condizione indispensabile per avere una prospettiva che non sia quella di andare a sbattere.

 

Tra questi punti fermi ce ne è uno che è trasversale: l’efficienza. Tutto quel che si fa e si farà deve, infatti, avere davanti più che mai questa stella polare: aumentare l’efficienza.

 

Certo, non è una novità: sono anni e anni che il bravo consulente conclude i suoi interventi spiegando che l’unica strada percorribile è quella dell’efficienza. Tuttavia, fino ad ora l’approccio era prettamente economico: aumentare l’efficienza per aumentare la redditività. Il che, effettivamente, non fa una piega.

 

Ora però l’equazione si fa più complessa perché è entrato di prepotenza il concetto di efficienza mirata all’aumento della sostenibilità della produzione.

 

Dato che la filiera produttiva che porta al litro di latte è fatta di tanti tasselli, la redditività del processo produttivo, in un passato anche recente, poteva anche ottenersi pure se qualcuno di questi tasselli non aveva al massimo grado una sua dote di efficienza.

 

Ora il discorso cambia, perché quel litro di latte dovrà avere il minimo impatto ambientale o, per dirla in altro modo, il minimo carico in emissioni in CO2 equivalente possibile. Questo significa per forza di cose spacchettare tutti i passaggi che conducono alla sua produzione, perché ognuno di essi porta in dote un suo carico – più o meno grande, addirittura anche negativo – di emissioni.

 

Ed è qui che entra in gioco questo nuovo concetto di efficienza: non solo massima resa al minor costo, ma anche massima resa al minor valore di emissioni. Diventerà quindi normale (anzi, dovrebbe esserlo già oggi) un secondo bilancio, accanto a quello economico-finanziario, sui cui ragionare in termini di entrate ed uscite: quello per la CO2.

 

La faccenda delle emissioni per l’allevamento bovino da latte non è fatta di chissà quali passaggi misteriosi o indecifrabili. 

Al contrario, è abbastanza semplice: efficienza dell’alimentazione per ridurre al minimo sprechi e frazioni indigerite; massima qualità delle produzioni foraggere e necessità di accrescere l’autosufficienza aziendale per ridurre l’uso di concentrati; meno soia e altre materie prime di provenienza estera, gravate da un fardello pesante in termini di emissioni; obbligo di gestire le deiezioni con la massima cura, per non sprecare nemmeno un briciolo della loro capacità fertilizzante, al fine di ridurre l’uso di concimi chimici di produzione industriale; piani colturali che massimizzino lo stoccaggio di carbonio e lavorazioni ridotte del terreno. E poi, ancora, numeri di capi in equilibrio con i terreni e, quindi, una demografia precisa; mandrie sane, resistenti, capaci di sfruttare meglio gli alimenti (ad esempio co-prodotti dell’industria), il cui conteggio ambientale è già stato caricato su altre filiere. Infine, tecnologia che aiuti in tutto questo portando precisione massima e supporto decisionale.

 

Su questi temi ci sono situazioni diverse tra azienda e azienda e questo significa margini di miglioramento anche importanti, non solo per l’efficienza tecnica, ma anche proprio per quella ambientale.

 

Farsi trovare pronti è cosa indispensabile per resistere, in tempi nei quali chi comanda il pensiero globale non è amico dell’allevamento e, anzi, ha già messo in moto da tempo una campagna di delegittimazione che non è per nulla rassicurante e che si riflette in maniera chiara in quelle agende ufficiose e ufficiali di chi – nei fatti – conta ormai più della politica. 

 

Ovviamente poi la politica si accoda, come dimostrano le recenti misure tassatorie contro gli allevamenti nel Nord Europa, benedette e sollecitate dai gran sacerdoti del climate change e dai loro attivissimi accoliti.

 

Fare in modo che – e poterlo dimostrare con numeri certi – che quanto a CO2 l’allevamento ben gestito è meno impattante della fabbricazione degli smartphone sui cui viaggia l’indignazione di chi l’allevamento lo contesta è ormai una priorità indifferibile. 

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